Il 4 dicembre 1992, l’ex capodecina della mafia di San Cataldo, Leonardo Messina, collaboratore della giustizia, riferisce alla Commissione nazionale antimafia che «Cosa nostra si sta spogliando delle vecchie alleanze, e cova di nuovo il sogno di diventare indipendente, padrona di una parte dell’Italia: uno Stato suo».
«L’obiettivo – gli chiede il presidente della Commissione Luciano Violante – è quello di rendere indipendente la Sicilia rispetto al resto d’Italia?».
«Sì», risponde Messina. «In tutto questo Cosa nostra non è sola ma è aiutata dalla massoneria… Molti uomini d’onore, quelli che riescono a diventare capi, appartengono alla massoneria…».
«Ed è nella massoneria che sta sorgendo questa idea del separatismo?», domanda Violante.
«Sì», risponde asciutto Messina.
«Le spinte separatiste vengono da fuori o stanno dentro i confini nazionali?», incalza Luciano Violante.
«Penso che vengano da fuori dei confini nazionali. Posso parlare del programma della regione mafiosa…».
«E la regione ha deciso di orientarsi verso l’indipendentismo, verso un nuovo separatismo?».
«Sì».
«Questo separatismo sarebbe collegato con forze non nazionali o anche con forze nazionali?».
«Anche con forze nazionali».
«Le forze nazionali sono politiche o no?».
«Anche politiche».
«Politiche e non, quindi?».
«Politiche e imprenditrici».
«Non istituzionali?».
«Anche».
«Quindi ci sarebbero settori, per così dire delle istituzioni, dell’imprenditoria e della politica che sosterrebbero questo progetto?».
«Sì».
«Non c’è dubbio», a questo punto esclama il presidente Violante. «La teoria separatista vuol dire colpo di Stato o vuol dire…».
«… in precedenza – lo interrompe Messina -Cosa nostra si adoperava per fare colpi di Stato. Oggi possono arrivare al potere senza fare il colpo di Stato».
Violante riflette, s’impone una pausa. Forse fa fatica a credere alle parole di Messina. «Questi sostegni – riprende – vengono da tutte le istituzioni o da una in particolare?».
«Anche dalla giustizia», risponde Messina.
Violante pretende una conferma.
«Dalla magistratura, dunque?», domanda.
«Sì… io non parlo del colpo di Stato dei magistrati, ho detto che ci sono alcuni magistrati massoni che sono a conoscenza di questo disegno».
Stimolato dalle domande di Violante, Messina riferisce due episodi: il viaggio del finanziere siciliano Michele Sindona in Sicilia nel ’79, e i preparativi del tentato colpo di Stato del principe Junio Valerio Borghese nel 1970.
«Sì, avevo appena sedici anni ma ricevetti ordini da don Cali di San Cataldo», ricorda Messina. «Eravamo pronti ad assaltare caserme e prefetture, municipi e tutto. Il nuovo progetto indipendentista? Finora hanno controllato lo Stato. Adesso vogliono diventare lo Stato».
Le rivelazioni di Messina avevano avuto una specie di prologo nel novembre del 1992, grazie a  Tommaso Buscetta. Nel 1970,1973 e 1974, riferisce Buscetta alla Commissione antimafia, c’erano stati in Italia tentativi di colpo di Stato, e ogni volta la mafia era stata contattata perché si alleasse ai golpisti. Braccio militare, dunque; e non ispiratrice, o promotrice. Quattro episodi – 1970, ’73, ’74 e ’79 – testimoniavano l’intenzione, la vocazione o la disponibilità golpista della mafia; nessuna, però, il suo ruolo ispiratore.
Nel 1992 la strategia di Cosa nostra muta: l’obiettivo è quello di diventare Stato. Messina indica mese e luogo in cui viene enunciata per la prima volta: marzo 1992, a Enna, nel cuore della Sicilia, in una riunione di boss. Il contesto, rispetto al passato, è profondamente diverso: l’Italia subisce le speculazioni sulla lira, mette in vendita la sua industria pubblica, la borsa annaspa, e ministri, parlamentari, capitani d’industria, dirigenti di partito vengono inquisiti o finiscono in galera per corruzione.
Solo coincidenze?. Bisogna «fare parlare le carte». E partire da lontano. Tanto non ci si allontana mai abbastanza.
Da che cosa? E’ il piu’ semplice dei quesiti ed insieme il piu’ complesso. L’alta mafia non si trova fra i fichi d’India. Facciamo un passo indietro, magari lungo, molto lungo, giusto per capire il contesto, vecchio quanto la storia d‘Italia. Chi era l’interprete di Charles Poletti, il governatore di Palermo, dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia? Il padre di don Vito Ciancimino, un barbiere emigrato negli USA. E Vito Genovese, il boss italo-americano, era l’interprete delle forze USA a Napoli. L’esercito americano avanza per quasi 200 chilometri in Sicilia senza incontrare ostacoli. E nomina i primi sindaci. Chi sono? Genco Russo a Mussomeli, Calogero Vizzini a Villalba. Proprio loro, i grandi capi della mafia siciliana. Facciamo un altro passo indietro? Il prefetto Mori, quello che combatté l’onorata società durante il fascismo, scopre che i mafiosi si sono insediati anche nel partito e nel sindacato del partito fascista. Insomma i campieri sono diventati  guardiani del feudo, e poi padroni; governano insieme ai potenti. Quando non va bene, si mettono da parte per il tempo che basta. E quando è l’ora, ecco i nuovi alleati, che vengono dall’altro capo del mondo. Loro restano in sella.
Questo e’ l’antefatto.  Un flash back, giusto per capire da dove veniamo e, forse, dove stiamo andando.
E’ come mettersi davanti a uno scheletro, quello vero che sta in piedi in un laboratorio medico: non odora, non provoca terrore, nessuna emozione. Se si trovasse altrove, magari in una sepoltura, ci troveremmo con un disgustoso cadavere in putrefazione. Invece, eccolo, tutto ossa e silenzi, e’ come se non ci appartenesse.
La mafia in disgrazia non odora piu’ di morte, perche’ e’ solo uno scheletro che fa paura a chi ha chiuso gli scheletri nell’armadio. Non spiega tutto, ma ci aiutare a capre con chi si ha a che fare, ancora oggi. Ha scelto la parte giusta nel momento giusto, percio’ segnala i perorsi. Che cosa accade nel 1992? La mafia non spiega tutto, in una intervista rilasciata a «Le Monde» Leonardo Sciascia osserva saggiamente: «Dopo l’affare Giuliano l’Italia comincia a essere un Paese senza verità… Da quel momento non c’è episodio criminale che, avendo qualche rapporto con la politica, abbia avuto una spiegazione razionale e una giusta punizione».
Rammentate  Sciascia nel suo Cavaliere e la morte? La mafia s’inventa una sigla rivoluzionaria creata apposta per uccidere un uomo importante. La misteriosità e l’intrigo fanno della Sicilia. O ci hanno fatto credere così?
In un articolo sul Corriere della Sera,  Saverio Vertone scrive: «Il Paese è diventato un albergo a ore per servizi segreti di tutto il mondo, i quali hanno incrociato e soddisfatto a nostre spese le ragioni di tutti gli Stati, meno quelle nostre». Il brano, invero, si conclude con un punto interrogativo, ma e’ come se fosse lì impropriamente, a salvaguardia dell’inesistente dubbio, anzi a rimarcare che non ci fosse dubbio sul fatto che proprio così le cose erano andate in Italia, a causa dei fatti siciliani, la ragion di Stato, di uno Stato infinitamente più importante del nostro, che aveva usato la Sicilia per non perdere il controllo del Paese, e attraverso quello, l’Europa.
Fantasie? La mancanza di verità denunciata da Sciascia, secondo Vertone, e’ inevitabile, «per un Paese schierato senza convinzione a ridosso di una delle grandi faglie del mondo contemporaneo, privo inoltre di una solida cultura, forse incapace di resistere alle seduzioni della più forte quinta colonna nemica accampata in Occidente».
La ragion di Stato, dunque, si sarebbe servita del messianesimo rivoluzionario «giocando sul rosso e sul nero» nel nord e sulla inesauribile riserva criminale delle mafie «per mantenere il Paese urlante e scalpitante sulla giusta carreggiata».
Tutto finto e tutto terribilmente vero. O un gioco intellettuale, ma e’ ben altro che un gioco, scovare il filo d’Arianna che tiene insieme i crimini della mafia e la storia politico-istituzionale del Paese. Il 1979 è un anno solare. Nel 1979 mafia e massoneria scendono sul terreno per tentare il golpe, quando Michele Sindona, con il nome di Joseph Bonamico, arriva a Palermo, e da qui a Catania e a Caltanissetta. Il progetto separatista era vecchio, vecchio di molti anni. Semmai, a credere nelle parole di Messina, avrebbe subito una evoluzione, degli aggiustamenti. Non più  la sola Sicilia, ma anche la Campania, la Calabria, la Puglia si sarebbero separate.
Follia, pura follia?
La questione, dice Messina, fu trattata in marzo dopo l’assassinio dell’eurodeputato Salvo Lima, alla vigilia delle stragi di Capaci e via D’Amelio, nelle quali avevano perduto la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Perché a marzo?
«In Sicilia si stanno cercando alleati politici favorevoli al progetto», spiega Messina. «Ora la manovra non viene dal sud… Cosa nostra appoggerà una forza politica nuova, con un nome nuovo».
Un golpe bianco, una rivoluzione in punta di piedi, condotta con le regole della democrazia e con le leggi dello Stato: questa poteva essere la chiave di tutto. Un paese che tollera l’abuso, l’illegalità, la corruzione come eventi fisiologici, come mali minori, può essere messo in ginocchio applicando semplicemente la legge. I ladri si sarebbero fatti trovare con le mani nel sacco sorpresi e stupiti, e gli altri avrebbero taciuto temendo la stessa sorte. Tutto plausibile. Ma anche il separatismo raccontato da Leonardo Messina lo era; ed i tentativi di colpo di Stato non erano certo invenzioni giornalistiche. L’idea che il Paese più conservatore d’Europa – lo stesso partito al potere per mezzo secolo -fosse in realtà il luogo di mille agguati, intrighi e misteri, costituisce un paradosso con il quale misurarsi.
Niente vieta di supporre che il potere avesse ereditato se stesso proprio grazie agli inganni orditi per decine di anni. E grazie alla ragion di Stato, sia stato realizzato un disegno lucido, coerente nel tempo, fino al 1992.
Quali elementi tengono insieme i separatismi, le mafie, le buone ragioni del crimine, il vecchio potere e il nuovo? Il cordone ombelicale fra la mafia siciliana e quella americana, e il costante interesse americano sul nostro Paese, la lunga frontiera fra il mondo comunista e quello occidentale sono verita’ innegabili. Ma oggi sembrano appartenere ad un altro mondo ed un altro tempo. E’ proprio cosi’?
Le rivelazioni di Gaspare Spatuzza non poggiano sul vuoto, stanno dentro i percorsi battuti, contengono elementi costantemente presenti che meriterebbero di essere indagati. Come il caso Messina, ignorato inspiegabilmente, nonostante il rilievo delle sue rivelazioni in Commissione antimafia.
Messina da’ un senso a cio’ che sostiene Spatuzza, gli conferisce la cornice di riferimento. Le intenzioni di chi “faceva” l’Italia nel 1992 e l’anno successivo, sono nelle sue parole, nei suoi ricordi, nei collegamenti che propone alla Commissione parlamentare. Eppure, niente. Di lui non si parla, non si scrive. Sulle sue “confessioni” non si fanno domande.
Forse sarebbe il caso di cominciare a farle.
Forse.