Le Navi dei veleni
IL RELITTO CHE SVELA LA MAFIA DEI VELENI
Un pentito: lì la ‘ ndrangheta affondò un carico di fusti tossici e radioattivi
Di Carlo Macrì – da “il Corriere della Sera” del 13/9/2009
CETRARO (Cosenza) – È il relitto di una nave l’ombra comparsa improvvisamente dai fondali del mare di Cetraro, a 14 miglia dalla costa. Se si tratta, però, della nave dei veleni è ancora presto per dirlo. Attraverso le foto realizzate dal robot sottomarino calato a 480 metri di profondità, è stato possibile osservare che a prua la nave presenta un grosso squarcio, forse provocato da una bomba, da dove fuoriescono due fusti schiacciati.
L’ Arpacal ha fatto i primi test per capire cosa contengono. Impossibile decifrare il nome della grossa imbarcazione, lunga circa 100 metri, la cui costruzione potrebbe risalire agli anni ‘ 60-’ 70. Certo è che quel relitto non figura in nessuna carta nautica, segno evidente che l’ affondamento non è stato mai segnalato.
Il procuratore della Repubblica di Paola Bruno Giordano non si sbilancia sulle possibilità che possa trattarsi della Cursky, la nave di cui parlò anni addietro il pentito di ‘ ndrangheta Francesco Fonti. L’ ex trafficante di stupefacenti, originario della Locride, implicato in numerose inchieste anche dalle procure di Milano e Torino, confessò al pubblico ministero della Dda di Catanzaro Vincenzo Luberto dell’esistenza di una nave con 120 fusti tossici fatta affondare a largo di Cetraro.
Una nave stracarica di scorie radioattive spedita in fondo al mare per smaltire il carico di cui era piena la stiva. L’ affondamento fu il risultato di un accordo tra la cosca capeggiata da Franco Muto e le famiglie di ‘ndrangheta della Locride, che avevano deciso di buttarsi a capofitto nel business dei rifiuti. Fu proprio Muto – ha spiegato Fonti – a fornire il motoscafo d’altura servito per trasportare la dinamite utilizzata per far saltare in aria la nave.
Il pentito raccontò pure che gli uomini dell’ equipaggio della Cursky furono fatti salire sul motoscafo, portati a riva e poi, in macchina, trasferiti alla stazione di Paola dove presero un treno che li portò al Nord. Quel lavoro fruttò ai due protagonisti che causarono l’ affondamento della Cursky, 200 milioni di vecchie lire. Furono avviate diverse inchieste coordinate dalla procura di Catanzaro. I magistrati interpellarono anche la Marina Militare. L’ unica nave che le carte nautiche davano come affondata nel tratto di mare indicato da Fonti, era quella della motonave «Federico», colata a picco durante l’ ultima guerra mondiale.
All’ inchiesta della procura di Catanzaro si aggiunse quella di Reggio Calabria, affidata al pm Franco Neri. Il magistrato da metà anni ‘ 90 aveva ricostruito le rotte di navi che sparivano nel Mediterraneo. Tra il 1981 e il ‘ 93, ci furono diversi naufragi che Neri considerò molto strani perché in quei giorni le previsioni davano «mare piatto». (Carlo Macrì)
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Dopo il relitto in Calabria, inchiesta di Legambiente sulle ecomafie
Sarebbero da 40 a oltre 100 i cargo affondati nel Mediterraneo
Sarebbero da 40 a oltre 100 i cargo affondati nel Mediterraneo
DAL PLUTONIO ALLE POLVERI, IL “CIMITERO” DELLE NAVI RADIOATTIVE
di Antonio Cianciullo, da La Repubblica del 14/9/2009
“Basta essere furbi, aspettare delle giornate di mare giusto, e chi vuoi che se ne accorga?”. “E il mare? Che ne sarà del mare della zona se l’ammorbiamo?”. “Ma sai quanto ce ne fottiamo del mare? Pensa ai soldi che con quelli, il mare andiamo a trovarcelo da un’altra parte…”. Questo dialogo tra due boss della ‘ndrangheta, agli atti delle indagini coordinate da Alberto Cisterna, magistrato della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, basta per comprendere quale logica abbia mosso le navi dei veleni.
Navi che dagli anni Ottanta hanno seminato lungo le coste del Mediterraneo e dell’Africa i loro carichi di rifiuti tossici e radioattivi Meno facile è capire perché si sia dovuto aspettare vent’anni per seguire una pista che era stata indicata con chiarezza da tante inchieste e tanti pentiti. Nel 2000 l’indagine iniziata dalla magistratura di Reggio Calabria nel 1994, dopo una denuncia della Legambiente sulla Rigel, un’altra nave a perdere affondata per disfarsi di un carico radioattivo che non riusciva a trovare destinazioni lecite, fu archiviata, nonostante la gran mole di indizi, perché “mancava il corpo del reato”.
Navi che dagli anni Ottanta hanno seminato lungo le coste del Mediterraneo e dell’Africa i loro carichi di rifiuti tossici e radioattivi Meno facile è capire perché si sia dovuto aspettare vent’anni per seguire una pista che era stata indicata con chiarezza da tante inchieste e tanti pentiti. Nel 2000 l’indagine iniziata dalla magistratura di Reggio Calabria nel 1994, dopo una denuncia della Legambiente sulla Rigel, un’altra nave a perdere affondata per disfarsi di un carico radioattivo che non riusciva a trovare destinazioni lecite, fu archiviata, nonostante la gran mole di indizi, perché “mancava il corpo del reato”.
Difficile del resto che le prove potessero emergere da sole visto che erano state seppellite con cura in una fossa del Mediterraneo.
Ora però, grazie all’ostinazione della procura di Paola e dell’assessorato all’Ambiente della Regione, la “pistola fumante” è stata trovata: un piccolo robot è riuscito a fotografare il delitto sepolto a 487 metri di profondità, i bidoni della vergogna che spuntano dalla falla nella prua della Cunsky. Il teorema della prova irraggiungibile è crollato.
“Per troppi anni i magistrati sono stati lasciati soli mentre i processi venivano insabbiati: a questo punto tutte le inchieste vanno riaperte”, chiedono Enrico Fontana e Nuccio Barillà, i dirigenti della Legambiente che hanno denunciato molte sparizioni sospette di navi. “Devono intervenire la procura nazionale antimafia e il ministero dell’Ambiente, bisogna formare un’unità di crisi per il monitoraggio delle zone in cui all’aumento della radioattività corrisponde un picco di tumori. Vogliamo sapere la verità sui legami tra il traffico di rifiuti e il traffico di armi, le connessioni con il caso Ilaria Alpi e il trafugamento di plutonio e rifiuti radioattivi”.
Buona parte del lavoro è già fatto: mettendo assieme le informazioni raccolte pazientemente dai magistrati di mezza Italia è possibile costruire la mappa dei cimiteri radioattivi dei nostri mari. Un elenco di affondamenti volontari, navi che spariscono nel nulla senza lanciare il may day, troppo lungo per essere citato in versione integrale, ma basta ricordare alcuni casi per avere un’idea di quello che è successo in questi anni.
Nel 1985, durante il viaggio da La Spezia a Lomè (Togo), sparisce la motonave Nikos I, probabilmente tra il Libano e Grecia. Sempre nel 1985 s’inabissa a largo di Ustica la nave tedesca Koraline. Nel 1986 è il turno della Mikigan, partita dal porto di Marina di Carrara e affondata nel Tirreno Calabrese con il suo carico sospetto. Nel 1987 a 20 miglia da Capo Spartivento, in Calabria, naufraga la Rigel. Nel 1989 la motonave maltese Anni affonda a largo di Ravenna in acque internazionali. Nel 1990 è il turno della Jolly Rosso a spiaggiarsi lungo la costa tirrenica in provincia di Cosenza. Nel 1993 la Marco Polo sparisce nel Canale di Sicilia.
Del resto fino agli anni Novanta c’era addirittura chi teorizzava pubblicamente la sepoltura in mare dei rifiuti radioattivi. La Odm (Oceanic Disposal Management) di Giorgio Comerio si presentava su Internet offrendo i suoi servigi di affondamento su commissione. Era già in vigore la Convenzione di Londra che vieta espressamente lo scarico in mare di rifiuti radioattivi, ma la Odm, che operava dal 1987, sosteneva che non si trattava di scarico “in” mare ma “sotto” il mare perché la tecnica proposta consisteva nell’uso di una sorta di siluri d’acciaio di profondità che, grazie al loro peso e alla velocità acquisita durante la discesa, s’inabissano all’interno degli strati argillosi del fondo marino penetrando a una profondità di 40-50 metri.
Ora però, grazie all’ostinazione della procura di Paola e dell’assessorato all’Ambiente della Regione, la “pistola fumante” è stata trovata: un piccolo robot è riuscito a fotografare il delitto sepolto a 487 metri di profondità, i bidoni della vergogna che spuntano dalla falla nella prua della Cunsky. Il teorema della prova irraggiungibile è crollato.
“Per troppi anni i magistrati sono stati lasciati soli mentre i processi venivano insabbiati: a questo punto tutte le inchieste vanno riaperte”, chiedono Enrico Fontana e Nuccio Barillà, i dirigenti della Legambiente che hanno denunciato molte sparizioni sospette di navi. “Devono intervenire la procura nazionale antimafia e il ministero dell’Ambiente, bisogna formare un’unità di crisi per il monitoraggio delle zone in cui all’aumento della radioattività corrisponde un picco di tumori. Vogliamo sapere la verità sui legami tra il traffico di rifiuti e il traffico di armi, le connessioni con il caso Ilaria Alpi e il trafugamento di plutonio e rifiuti radioattivi”.
Buona parte del lavoro è già fatto: mettendo assieme le informazioni raccolte pazientemente dai magistrati di mezza Italia è possibile costruire la mappa dei cimiteri radioattivi dei nostri mari. Un elenco di affondamenti volontari, navi che spariscono nel nulla senza lanciare il may day, troppo lungo per essere citato in versione integrale, ma basta ricordare alcuni casi per avere un’idea di quello che è successo in questi anni.
Nel 1985, durante il viaggio da La Spezia a Lomè (Togo), sparisce la motonave Nikos I, probabilmente tra il Libano e Grecia. Sempre nel 1985 s’inabissa a largo di Ustica la nave tedesca Koraline. Nel 1986 è il turno della Mikigan, partita dal porto di Marina di Carrara e affondata nel Tirreno Calabrese con il suo carico sospetto. Nel 1987 a 20 miglia da Capo Spartivento, in Calabria, naufraga la Rigel. Nel 1989 la motonave maltese Anni affonda a largo di Ravenna in acque internazionali. Nel 1990 è il turno della Jolly Rosso a spiaggiarsi lungo la costa tirrenica in provincia di Cosenza. Nel 1993 la Marco Polo sparisce nel Canale di Sicilia.
Del resto fino agli anni Novanta c’era addirittura chi teorizzava pubblicamente la sepoltura in mare dei rifiuti radioattivi. La Odm (Oceanic Disposal Management) di Giorgio Comerio si presentava su Internet offrendo i suoi servigi di affondamento su commissione. Era già in vigore la Convenzione di Londra che vieta espressamente lo scarico in mare di rifiuti radioattivi, ma la Odm, che operava dal 1987, sosteneva che non si trattava di scarico “in” mare ma “sotto” il mare perché la tecnica proposta consisteva nell’uso di una sorta di siluri d’acciaio di profondità che, grazie al loro peso e alla velocità acquisita durante la discesa, s’inabissano all’interno degli strati argillosi del fondo marino penetrando a una profondità di 40-50 metri.
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QUEL RIFIUTO DI INTERVENIRE
di Massimo Scalìa – da “L’Unità” del 17/9/2009
Il 20 novembre 2000, nello stupendo palazzo dei Normanni a Palermo le commissioni parlamentari Antimafia e Ecomafie organizzano il convegno “Le rotte delle ecomafie”, presenti tutti i massimi responsabili delle forze addette al contrasto della criminalità organizzata. “Lo Stato si è mosso”, affermano convinti molti dei partecipanti nella sala gremita.
In realtà era stato l’estremo tentativo perché di fronte alle dimensioni dei traffici illeciti e dei danni ambientali e sanitari ipotizzabili l’Italia si decidesse finalmente a prevedere, come in tutti i Paesi europei, un titolo ad hoc per i reati ambientali nel codice penale. Al di là della certezza e della severità della pena, si doveva consentire alla magistratura inquirente il ricorso a tutti gli strumenti che permettono di individuare reati e colpevoli. Ma nella maggioranza di allora troppi erano preoccupati che normative stringenti tornassero a danno degli amministratori locali e delle imprese. E non se ne fece niente.
A tutt’oggi l’unico reato previsto è quello di traffico illecito di rifiuti pericolosi, ma non credo che questo sia stato alla base dell’azione della procura di Paola nelle indagini sulla Cunsky e sul suo carico. Il memoriale del pentito Fonti era già noto da tre anni, ma la sua complessità e la ricchezza delle sue informazioni erano state in qualche modo un fattore di scarsa credibilità, sembrava “costruito” si diceva.
A tutt’oggi l’unico reato previsto è quello di traffico illecito di rifiuti pericolosi, ma non credo che questo sia stato alla base dell’azione della procura di Paola nelle indagini sulla Cunsky e sul suo carico. Il memoriale del pentito Fonti era già noto da tre anni, ma la sua complessità e la ricchezza delle sue informazioni erano state in qualche modo un fattore di scarsa credibilità, sembrava “costruito” si diceva.
Oggi i riscontri effettuati rilanciano invece le indagini e le ipotesi che varie procure e la commissione Ecomafie avevano avanzato nel corso degli anni 90: un panorama di traffici di rifiuti pericolosi o radioattivi, di smaltimenti criminali e complicità politiche in Italia e fuori, la waste connection – armi per i signori della guerra somali in cambio di territorio per seppellire le scorie più nocive – per la quale Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin furono assassinati.
L’emergenza dei traffici dei veleni e delle scorie radioattive, la loro portata nazionale e internazionale suggerisce un coordinamento della procura nazionale antimafia a partire dalle indagini in corso e da quelle degli anni ’90. Questo sul piano giudiziario. Resta poi un Paese vulnerato e vulnerabile, dove “garantire la sicurezza” quella fisica, neanche quella sociale, appare un obiettivo difficile.
Un Paese dove, a proposito di radioattività, tra labilità dei controlli e minaccia sismica, il governo marcia spedito per fare il nucleare. Con lo stesso piglio militaresco, vedi le norme proposte per i siti, con cui affrontò la gestione delle scorie radioattive della modesta esperienza nucleare di questo Paese (decreto “Scanzano”, novembre 2003), esplicitando una vena autoritaria e al tempo stesso fallimentare rispetto alla soluzione del problema.
Un Paese dove, a proposito di radioattività, tra labilità dei controlli e minaccia sismica, il governo marcia spedito per fare il nucleare. Con lo stesso piglio militaresco, vedi le norme proposte per i siti, con cui affrontò la gestione delle scorie radioattive della modesta esperienza nucleare di questo Paese (decreto “Scanzano”, novembre 2003), esplicitando una vena autoritaria e al tempo stesso fallimentare rispetto alla soluzione del problema.
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ECCO LE TRENTA NAVI CHE AVVELENANO IL NOSTRO MARE
di Paolo Griseri e Francesco Viviano – da “la Repubblica” del 25/9/2009
PAOLA (Cosenza). DUE macchie gialle dietro il vetro di un oblò. I fari di una telecamera di profondità illuminano la scena. Le macchie sono proprio al centro dell’immagine, sopra la data e l’ ora della ripresa: 12 settembre 2009, 17.33.
Una nuova ombra, un rigagnolo di veleni, esce da una fenditura della lamiera. Altre masse nere (pesci?) si intravedono nell’ oscurità del relitto. Immagini che sembrano confermare il «sospetto inquietante» del Procuratore di Paola, Bruno Giordano: «Dietro quell’ oblò potrebbero esserci i teschi di due marinai». Non è solo una bomba ecologica quella affondata al largo della costa calabra: è una bara.
La storia inizia negli anni 80 quando l´Ispra avvia un progetto per lo stoccaggio in mare dei rifiuti radioattivi
L´imprenditore Giorgio Comerio si appropria del piano e ne fa un business: contatta i governi e offre smaltimenti a prezzi stracciati.
Qual era la mappa cui si riferiva il capitano di vascello Natale De Grazia nell´autunno del ‘95? Non lo sapremo mai. La sera del 12 dicembre De Grazia si accascia sul sedile posteriore dell´auto che lo
sta portando a La Spezia, alla caccia dei misteri delle navi dei veleni.
Una morte per infarto, dice il medico. Ma un infarto particolare se poco tempo dopo il capitano verrà insignito della medaglia d´oro al valor militare. Comincia da qui, da quell´appunto inedito, il viaggio alla ricerca delle navi dei veleni, affondate non solo in Italia ma in tutto il Mediterraneo e nel Corno d´Africa. Una storia che inizia in modo legale, tra i camici bianchi nei laboratori di un´agenzia dell´Unione europea, diventa un´occasione di arricchimento per personaggi senza scrupoli e merce di scambio per i trafficanti di armi e uomini.
Sullo sfondo, ma non troppo, un´incredibile tangentopoli somala e la morte ancora senza spiegazione ufficiale di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Il 18 gennaio 2005, rispondendo alle domande della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte dei due giornalisti italiani, il pm di Reggio Calabria Francesco Neri rivelava che «la cartina con i punti di affondamento e le segnalazioni di Greenpeace coincidono con le mappe di Comerio». L´indagine sulle navi dei veleni è rimasta lontano dai riflettori per 12 anni. Fino a quando, il 12 settembre scorso, il Manifesto rivela che un pentito, Francesco Fonti, ha consentito di scoprire un nuovo relitto sul fondale di fronte alle coste della Calabria.
La storia inizia negli anni 80 quando l´Ispra avvia un progetto per lo stoccaggio in mare dei rifiuti radioattivi
L´imprenditore Giorgio Comerio si appropria del piano e ne fa un business: contatta i governi e offre smaltimenti a prezzi stracciati.
Qual era la mappa cui si riferiva il capitano di vascello Natale De Grazia nell´autunno del ‘95? Non lo sapremo mai. La sera del 12 dicembre De Grazia si accascia sul sedile posteriore dell´auto che lo
sta portando a La Spezia, alla caccia dei misteri delle navi dei veleni.
Una morte per infarto, dice il medico. Ma un infarto particolare se poco tempo dopo il capitano verrà insignito della medaglia d´oro al valor militare. Comincia da qui, da quell´appunto inedito, il viaggio alla ricerca delle navi dei veleni, affondate non solo in Italia ma in tutto il Mediterraneo e nel Corno d´Africa. Una storia che inizia in modo legale, tra i camici bianchi nei laboratori di un´agenzia dell´Unione europea, diventa un´occasione di arricchimento per personaggi senza scrupoli e merce di scambio per i trafficanti di armi e uomini.
Sullo sfondo, ma non troppo, un´incredibile tangentopoli somala e la morte ancora senza spiegazione ufficiale di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Il 18 gennaio 2005, rispondendo alle domande della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte dei due giornalisti italiani, il pm di Reggio Calabria Francesco Neri rivelava che «la cartina con i punti di affondamento e le segnalazioni di Greenpeace coincidono con le mappe di Comerio». L´indagine sulle navi dei veleni è rimasta lontano dai riflettori per 12 anni. Fino a quando, il 12 settembre scorso, il Manifesto rivela che un pentito, Francesco Fonti, ha consentito di scoprire un nuovo relitto sul fondale di fronte alle coste della Calabria.
Una vicenda di cui ora si occuperà anche la Commissione antimafia. Così, alla ricerca di nuove bombe ecologiche sepolte, la mappa di Comerio è tornata d´attualità.
Di Giorgio Comerio, imprenditore nel settore delle antenne e delle apparecchiature di indagine geognostica, sono pieni i documenti delle commissioni di inchiesta. In un´intervista sostiene di essere vittima di un clamoroso equivoco: «Mi ha fermato alla frontiera un doganiere che non sapeva del progetto Euratom, è una bieca montatura». Una versione che ai pm sembra troppo semplice: «Aveva rapporti con i servizi argentini e iracheni e aveva comperato rifiuti da mezzo mondo».
L´inizio della storia delle navi dei veleni è in Italia, sulla sponda lombarda del Lago Maggiore, dove ha sede l´Ispra, l´Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale che lavora ai progetti dell´Euratom. È qui che, secondo il pm Nicola Maria Pace, negli anni 80 prende corpo un progetto ambizioso: «A Ispra – racconta Pace nel marzo del 2005 – presso gli impianti dell´Euratom di Varese, attraverso finanziamenti americani e giapponesi si avvia un progetto alternativo al sistema di deposito in cavità geologiche delle scorie nucleari.
Tale progetto, denominato Dodos, ha visto la partecipazione di centinaia di tecnici di tutto il mondo: hanno contribuito due esperti scienziati dell´Enea ed anche Giorgio Comerio». L´idea è quella di inabissare sul fondo del mare il materiale radioattivo stivato nelle testate dei siluri. Progetto che verrà poi abbandonato per timore delle proteste degli ambientalisti. «Per impedire che idee di questo genere venissero messe in pratica – ricorda Enrico Fontana di Legambiente – venne firmata la Convenzione Onu che impedisce lo sversamento di materiale pericoloso sui fondali marini».
Comerio capisce invece che quella tecnica può diventare una gallina dalle uova d´oro. Mette in piedi una società, la Odm, (naturalmente con sede nel paradiso fiscale delle Isole Vergini) e acquista i diritti della nuova tecnologia. Scopre un giudice a Lubiana che dà la patente al nuovo sistema sostenendo che non è in contrasto con la Convenzione Onu. È il colpo dello starter. Da quel momento Comerio si mette sul mercato anche attraverso un sito Internet: fa il giro dei governi del globo proponendo di smaltire le scorie a prezzi scontatissimi. Francia e Svizzera rifiutano. Ma le commesse, soprattutto quelle in nero, cominciano a fioccare. La mappa degli affondamenti è quella studiata, nel Mediterraneo e negli oceani, dal gruppo di scienziati di Ispra. Ormai il progetto è fuori controllo.
Nelle mani di Comerio cambia natura. Nell´audizione di fronte alla Commissione che indaga sulla morte di Ilaria Alpi, il pm Pace riferisce un particolare incredibile. La storia di «una intesa con una giunta militare africana, che si impegnava a cedere a Comerio tre isole, di cui una sarebbe stata affidata a lui, per installarvi un centro di smaltimento di rifiuti radioattivi in mare, un´altra sarebbe stata ceduta a Salvatore Ligresti, in cui avrebbe costruito villaggi turistici, la terza infine sarebbe stata data al professor Carlo Rubbia, affinché potesse installarvi un reattore di potenza abbastanza piccolo, per fornire energia sia all´impianto di smaltimento sia ai villaggi». Rubbia e Ligresti, naturalmente, rifiutano il progetto.
Il meccanismo è inarrestabile. Comerio contatta i governi della Sierra Leone, del Sudafrica, dell´Austria. Propone affari anche al governo somalo: 5 milioni di dollari per poter inabissare rifiuti radioattivi di fronte alla costa e 10 mila euro di tangente al capo della fazione vincente dell´epoca, Ali Mahdi, per ogni missile inabissato. Pagamento estero su estero, s´intende. A provarlo ci sono i fax spediti da Comerio nell´autunno del 1994 al plenipotenziario di Mahdi, Abdullahi Ahmed Afrah, e acquisiti dalla commissione di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi. La giornalista della Rai aveva scoperto il traffico e, cosa più pericolosa, la tangente?
Qualcosa di simile aveva scoperto De Grazia. Su ordine del pm di Reggio, Francesco Neri, aveva perquisito a Garlasco l´abitazione di Giorgio Comerio: era il settembre 1995, un anno dopo la morte dei giornalisti in Somalia. Il capitano italiano seguiva le rotte delle navi dei veleni. Indagava sulla Riegel, affondata nel 1987 nello Ionio e sulla Rosso, spiaggiata davanti ad Amantea il 14 dicembre 1990.
Di Giorgio Comerio, imprenditore nel settore delle antenne e delle apparecchiature di indagine geognostica, sono pieni i documenti delle commissioni di inchiesta. In un´intervista sostiene di essere vittima di un clamoroso equivoco: «Mi ha fermato alla frontiera un doganiere che non sapeva del progetto Euratom, è una bieca montatura». Una versione che ai pm sembra troppo semplice: «Aveva rapporti con i servizi argentini e iracheni e aveva comperato rifiuti da mezzo mondo».
L´inizio della storia delle navi dei veleni è in Italia, sulla sponda lombarda del Lago Maggiore, dove ha sede l´Ispra, l´Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale che lavora ai progetti dell´Euratom. È qui che, secondo il pm Nicola Maria Pace, negli anni 80 prende corpo un progetto ambizioso: «A Ispra – racconta Pace nel marzo del 2005 – presso gli impianti dell´Euratom di Varese, attraverso finanziamenti americani e giapponesi si avvia un progetto alternativo al sistema di deposito in cavità geologiche delle scorie nucleari.
Tale progetto, denominato Dodos, ha visto la partecipazione di centinaia di tecnici di tutto il mondo: hanno contribuito due esperti scienziati dell´Enea ed anche Giorgio Comerio». L´idea è quella di inabissare sul fondo del mare il materiale radioattivo stivato nelle testate dei siluri. Progetto che verrà poi abbandonato per timore delle proteste degli ambientalisti. «Per impedire che idee di questo genere venissero messe in pratica – ricorda Enrico Fontana di Legambiente – venne firmata la Convenzione Onu che impedisce lo sversamento di materiale pericoloso sui fondali marini».
Comerio capisce invece che quella tecnica può diventare una gallina dalle uova d´oro. Mette in piedi una società, la Odm, (naturalmente con sede nel paradiso fiscale delle Isole Vergini) e acquista i diritti della nuova tecnologia. Scopre un giudice a Lubiana che dà la patente al nuovo sistema sostenendo che non è in contrasto con la Convenzione Onu. È il colpo dello starter. Da quel momento Comerio si mette sul mercato anche attraverso un sito Internet: fa il giro dei governi del globo proponendo di smaltire le scorie a prezzi scontatissimi. Francia e Svizzera rifiutano. Ma le commesse, soprattutto quelle in nero, cominciano a fioccare. La mappa degli affondamenti è quella studiata, nel Mediterraneo e negli oceani, dal gruppo di scienziati di Ispra. Ormai il progetto è fuori controllo.
Nelle mani di Comerio cambia natura. Nell´audizione di fronte alla Commissione che indaga sulla morte di Ilaria Alpi, il pm Pace riferisce un particolare incredibile. La storia di «una intesa con una giunta militare africana, che si impegnava a cedere a Comerio tre isole, di cui una sarebbe stata affidata a lui, per installarvi un centro di smaltimento di rifiuti radioattivi in mare, un´altra sarebbe stata ceduta a Salvatore Ligresti, in cui avrebbe costruito villaggi turistici, la terza infine sarebbe stata data al professor Carlo Rubbia, affinché potesse installarvi un reattore di potenza abbastanza piccolo, per fornire energia sia all´impianto di smaltimento sia ai villaggi». Rubbia e Ligresti, naturalmente, rifiutano il progetto.
Il meccanismo è inarrestabile. Comerio contatta i governi della Sierra Leone, del Sudafrica, dell´Austria. Propone affari anche al governo somalo: 5 milioni di dollari per poter inabissare rifiuti radioattivi di fronte alla costa e 10 mila euro di tangente al capo della fazione vincente dell´epoca, Ali Mahdi, per ogni missile inabissato. Pagamento estero su estero, s´intende. A provarlo ci sono i fax spediti da Comerio nell´autunno del 1994 al plenipotenziario di Mahdi, Abdullahi Ahmed Afrah, e acquisiti dalla commissione di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi. La giornalista della Rai aveva scoperto il traffico e, cosa più pericolosa, la tangente?
Qualcosa di simile aveva scoperto De Grazia. Su ordine del pm di Reggio, Francesco Neri, aveva perquisito a Garlasco l´abitazione di Giorgio Comerio: era il settembre 1995, un anno dopo la morte dei giornalisti in Somalia. Il capitano italiano seguiva le rotte delle navi dei veleni. Indagava sulla Riegel, affondata nel 1987 nello Ionio e sulla Rosso, spiaggiata davanti ad Amantea il 14 dicembre 1990.
Navi cariche di veleni, «almeno trenta», secondo diversi pentiti. Nella cabina di comando della Rosso si scopre una mappa di siti per l´affondamento, la stessa che sarebbe stata trovata, cinque anni dopo, nell´abitazione di Comerio. De Grazia indaga sugli affondamenti ma anche sulle rotte. E scopre che se il cimitero dei veleni è nei mari del Sud Italia, i porti di partenza sono nel Nord, in quell´angolo misterioso tra Toscana e Liguria dove si incontrano due condizioni favorevoli: l´area militare di La Spezia e le cave di marmo delle Alpi Apuane. Perché l´area militare garantisce la riservatezza e il granulato di marmo copre le emissioni delle scorie radioattive:
«Stavamo andando a La Spezia – riferisce oggi uno di coloro che si trovavano sull´auto di De Grazia nel suo ultimo viaggio, il 12 dicembre – per verificare al registro navale i nomi di circa 180 navi affondate in modo sospetto negli ultimi anni e partite da quell´area».
Il capitano non sarebbe mai arrivato a La Spezia. Ma aveva già scoperto molte cose. Sapeva, ad esempio, che nella casa di Comerio c´era una cartellina: «una carpetta – riferisce Neri – con la scritta Somalia e il numero 1831. Nella cartella c´era il certificato di morte di Ilaria Alpi». Oggi, naturalmente, scomparso dagli atti.
«Stavamo andando a La Spezia – riferisce oggi uno di coloro che si trovavano sull´auto di De Grazia nel suo ultimo viaggio, il 12 dicembre – per verificare al registro navale i nomi di circa 180 navi affondate in modo sospetto negli ultimi anni e partite da quell´area».
Il capitano non sarebbe mai arrivato a La Spezia. Ma aveva già scoperto molte cose. Sapeva, ad esempio, che nella casa di Comerio c´era una cartellina: «una carpetta – riferisce Neri – con la scritta Somalia e il numero 1831. Nella cartella c´era il certificato di morte di Ilaria Alpi». Oggi, naturalmente, scomparso dagli atti.
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AFFARI VELENOSI – IL BUSINESS DEI RIFIUTI TOSSICI, OTTO MILIARDI MADE IN ITALY
di Paolo Griseri e Francesco Viviano – da “la Repubblica” del 26/9/2009
- Dietro il mistero del mercantile affondato al largo delle coste calabresi spunta l´ombra dello smaltimento clandestino: ogni anno nel nostro Paese spariscono 8 milioni di tonnellate di materiali pericolosi che alimentano un fatturato miliardario -
LA SPEZIA - La cosa più strana erano i bracci delle gru che sporgevano dal pontile. Come se stessero lavorando in porto. Ma la nave galleggiava al largo, «circa dieci miglia a nord di Marciana Marina».
Uno spettacolo inconsueto per una sera d´estate di fronte alle spiagge dell´Elba. Che cosa ci faceva in quel tratto di mare, alle 21 del 5 luglio scorso, la portacontainer maltese “Toscana”? «Abbiamo osservato la nave con l´aiuto di binocoli e ci siamo accorti che l´equipaggio lavorava sulle gru gettando alcuni oggetti fuori bordo. Gli oggetti sembravano essere container da 16 piedi (circa 5 metri)».
Questo scrivono nel loro rapporto all´autorità portuale gli uomini della Thales, un´imbarcazione tedesca che partecipa a progetti internazionali insieme a Legambiente. Qualsiasi cosa stessero facendo a bordo del Toscana, la presenza degli intrusi non è gradita: «Abbiamo cambiato immediatamente rotta per seguire più da vicino l´attività sul ponte – scrivono ancora gli ambientalisti tedeschi – ma dopo poco tempo la nave ha preso una rotta di collisione con noi».
Un vero e proprio inseguimento: «Abbiamo dovuto fare una manovra di emergenza virando di 45 gradi ma dopo pochi minuti la ‘Toscana´ era nuovamente in rotta di collisione». Di quella sera restano la denuncia dell´imbarcazione tedesca («veritiera e in accordo con le regole della marina Mercantile Britannica») e le fotografie scattate a rischio della vita.
Dunque, la storia delle navi dei veleni continua oggi. Nonostante le denunce, le indagini, gli arresti. Spiega Paolo Russo, ex presidente e membro della Commissione d´inchiesta sul ciclo dei rifiuti: «Spesso non è necessario affondare una nave per seppellire i rifiuti.
Quando i pentiti parlano di affondamenti si riferiscono anche al lancio dei container fuori bordo». I motivi sono economici e, talvolta, militari. «Smaltire un rifiuto pericoloso – dice il pm Luciano Tarditi – può essere più conveniente che trafficare con la droga. Anche solo per il fatto che chi smaltisce rifiuti viene considerato un benefattore della società e viene pagato con denaro pulito».
I motivi militari, come vedremo, riguardano la necessità di nascondere attività politicamente inconfessabili affidandosi ai service della criminalità organizzata. La lunga storia del sito Enea di Rotondella in Basilicata è un esempio di scuola.
Secondo i dati raccolti dalla commissione presieduta da Russo, ogni anno spariscono in Italia «tra i 6 e gli 8 milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi che è come dire una collina alta 300 metri». In sedici anni la massa delle sostanze sparse illegalmente nell´ambiente arriva all´altezza del Monte Bianco. Per lungo tempo, spiega il parlamentare del Pdl, i rifiuti prodotti al Nord percolavano lungo la penisola fino allo smaltimento illegale a Sud: «Punto di snodo essenziale di questa attività era l´area della Toscana e della Liguria».
Quel golfo dei veleni e dei misteri che parte da La Spezia e arriva a Livorno. Da qui negli anni ´90 sono partite le navi destinate al naufragio sulle coste di fronte alla Calabria o alla Somalia. Da La Spezia è partita nel dicembre del 1990 la Jolly Rosso, ormai ridenomianta Rosso, dell´armatore Ignazio Messina.
Sempre a La Spezia il pm Tarditi ha scoperto il gravissimo inquinamento della discarica di Pittelli – sulla collina che guarda il porto commerciale – di proprietà di Orazio Duvia, uno dei signori italiani dei rifiuti. «A Pittelli – ricorda l´avvocato di Legambiente Riccardo Lamma – fu trovato di tutto e in due dei cinque strati della discarica le trivelle non sono riuscite ad arrivare».
Nella parte analizzata sono saltati fuori, tra gli altri, alcuni fusti dell´Union Carbide, la società responsabile del disastro di Bophal. «Durante i lavori di bonifica – riferiscono gli abitanti della zona – un operaio forò con la benna un bidone e morì il giorno dopo per la nube tossica sprigionata». L´arresto di Duvia e di altri 9 personaggi coinvolti nel disastro ambientale è del 28 ottobre 1996.
Partendo dall´indagine di Tarditi un pool di giornalisti di Famiglia Cristiana riuscì a risalire al traffico di rifiuti verso la Somalia e all´omicidio di Ilaria Alpi. La procura di La Spezia invece è stata meno efficiente: il pm astigiano trasmise gli atti, per competenza territoriale, nel dicembre del ´96. Incredibilmente ancora oggi non si è concluso il dibattimento in primo grado: la speranza degli imputati superstiti è di conquistare, nel 2011, la prescrizione dei reati.
Le dichiarazioni all´ Espresso del pentito Fonti, che parla di due affondamenti, uno di fronte a Livorno e uno di fronte a La Spezia, hanno spinto Legambiente a chiedere nuove indagini di fronte al porto ligure: «Le analisi condotte dell´Ircam e rese note in un rapporto del 2005 – rivela la legale degli ambientalisti, Valentina Antonini – mettono in evidenza “livelli preoccupanti di rame” e altri metalli nella rada di fronte alla città.
Vogliamo sapere se questo è dovuto all´inquinamento di chi negli anni scorsi può aver gettato in mare rifiuti tossici che finirebbero per rappresentare un grave pericolo per la sicurezza dei cittadini». Per questo Antonini presenterà nei prossimi giorni un esposto alla procura chiedendo che sul punto venga sentito Fonti.
Il business dell´inquinamento nasce dai costi molto alti dello smaltimento legale: «Abbassare i prezzi dello smaltimento pulito è la vera scommessa da vincere», dice Paolo Russo. Oggi la differenza è decisamente favorevole alla soluzione criminale.
Il business dell´inquinamento nasce dai costi molto alti dello smaltimento legale: «Abbassare i prezzi dello smaltimento pulito è la vera scommessa da vincere», dice Paolo Russo. Oggi la differenza è decisamente favorevole alla soluzione criminale.
Secondo uno studio inglese e i risultati delle indagini di Legambiente, trattare in modo legale una tonnellata di sostanze pericolose in Occidente può costare tra i 100 e i 2.000 euro, a seconda del tipo di rifiuto. In Africa il tariffario per sostanze dello stesso tipo va da 2,5 a 50 euro a tonnellata, come dire quattrocento volte di meno. Un risparmio medio di 1.000 euro a tonnellata che in Italia vuol dire un business illegale di 8 miliardi all´anno.
Luciano Tarditi spiega che «uno dei sistemi utilizzati è quello del cosiddetto giro bolla». Con una serie di trattamenti fittizi i rifiuti pericolosi vengono ridotti a rifiuti assimilabili a quelli urbani e finiscono in discarica con questi ultimi. «Il fatto grave – aggiunge Russo – è che in questo modo le sostanze tossiche possono finire nel compost venduto agli agricoltori come concime. Anni fa sono stati sequestrati per questo motivo 4 ettari di terreno già coltivati a mais e ovviamente inquinati». Non si saprebbe quale dei due mali, l´inquinamento dei mari o quello delle campagne, sia il peggiore. Ma come vedremo, soprattutto quando i rifiuti sono radioattivi, il primo è spesso la conseguenza del secondo. (Paolo Griseri e Francesco Viviano, la “La Repubblica”) (la loro inchiesta continua)
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